Ti racconto l'aborto

Storie

La storia di Alessandra

Alessandra, la sua storia è molto dolorosa. La vuole condividere?

“Sono cresciuta in una famiglia particolare. I miei erano separati e io vivevo con mia madre, una sessantottina che aveva subito dai genitori troppe restrizioni, perciò a me concedeva la massima libertà. Zero paletti, potevo fare tutto quello che volevo, ma di conseguenza avevo anche zero riferimenti. Ho cominciato avere rapporti con i ragazzi fin da molto giovane e a diciotto anni sono rimasta incinta per la prima volta.

Immediatamente chiesi al mio ragazzo cosa dovevo fare. Lui aveva 23 anni, era molto innamorato di me ma stava per trasferirsi a Ravenna, perciò non era il momento. Di base all’epoca c’era la cultura del trattare un figlio non come un dono da accogliere ma come un oggetto che scegli se comprare adesso o più tardi, quando potrai permettertelo o quando ne avrai voglia. Mia madre mi disse che per il mio bene avrei dovuto abortire e mi indirizzò verso questa scelta. Ho vissuto momenti di panico, non sapevo che fare, sentivo chiaramente una vocina dentro che, contro tutto e tutti, mi diceva di non farlo.

Andai dal ginecologo di mia madre che non mi indirizzò a parlare con nessuno, in seguito ho scoperto invece che per legge devono essere fatti dei colloqui in consultorio. Dissi al medico che mi sentivo di uccidere una vita, lui rispose: ‘Fino a 3 mesi non è vita, non ti preoccupare’.

Alcune settimane dopo feci l’intervento. Furono le settimane più dure della mia vita, ero straziata da una lotta interiore che non mi dava pace. Il giorno dell’aborto rimasi in ospedale per molte ore, in uno stanzone con altre otto donne. Alcune stavano zitte, impietrite e impaurite, altre giocavano a carte e schiamazzavano.
In me intanto cresceva un malessere più simile al dolore. Fui una delle ultime a essere portata in sala operatoria, via via vedevo tornare le donne addormentate che erano entrate con il bambino in pancia e che ora ne uscivano svuotate.
Quando toccò a me dissi al ginecologo che non volevo farlo più. In quel momento non mi importava più di niente, né di come avrei fatto a vivere con il bambino, né di cosa sarebbe stato del mio futuro, insomma di nulla. Volevo solo tenerlo. Ma il medico mi disse che ore prima mi era stato somministrato un obolo abortivo, per cui avrei perso il bambino comunque, ma in maniera assai più penosa. In quel momento ho visto la luce della mia vita spegnersi”.

Dopo cosa successe? 

“I tre anni successivi ebbicrisi di rabbia, sia col mio ragazzo che con mia madre, in particolare con lei non riuscivo più ad avere rapporti normali. A 23 anni mi misi con un altro compagno, rimasi incinta di nuovo. Lui preferiva non tenerlo e io pure.
Stavolta ero decisissima ad abortire, mi dissi che dovevo finire l’università, che non avrei potuto occuparmi di un figlio e che non dovevo mettere al mondo un infelice.
Così ho abortito la seconda volta, con lo stesso ginecologo, nello stesso ospedale. Alla fine, pensavo, se la legge ti permette di farlo, vuol dire che non c’è niente di sbagliato”.

Quali furono le conseguenze stavolta?

“Dopo due anni dal secondo aborto mi sentii svuotata, non avevo più voglia di vivere né di fare niente.

Un giorno mi misi semplicemente a letto e non mi alzai più.
Allora ebbe inizio un calvario durato 13 anni. Psicologi, psichiatri, medicine, niente riusciva a farmi uscire dallo stato in cui mi trovavo. Volevo togliermi la vita, una volta provai a farlo, odiavo mia madre, nessuna delle due capiva perché. Facevo cose folli, prendevo a pugni i quadri di casa, spaccavo i vasi, le mie scelte avevano deviato la mia natura. Pensai che se i medici e i farmaci non potevano guarirmi, tornare ad essere madre invece avrebbe potuto farlo.

A 35 anni conobbi il mio attuale marito che accettò di cercare subito un figlio. Ma il figlio non è mai arrivato.
Rabbia e dolore andarono allora crescendo, fino a che mi chiusi in casa perché ero diventata un pericolo per gli altri, oltreché per me stessa”.

Come hai fatto ad uscire dal baratro in cui eri sprofondata? 

“Fu grazie ad un’intuizione di mio marito. Mi disse di chiedere aiuto a Dio e mi portò ad Assisi. S’inginocchiò dinanzi alla tomba di San Francesco e gli chiese di salvarmi.
Poi, nell’agosto del 2010, andai a Međugorje senza neanche sapere cosa fosse né cosa avrei trovato lì. I miei cari mi videro partire parlando di suicidio e tornare poi con un rosario tra le mani e la pace nel cuore. In quei luoghi, nelle parole di una persona in particolare, avevo capito che la chiave della mia guarigione poteva essere solo il perdono. Nei confronti di me stessa, ma anche di mia madre, che non aveva agito per cattiveria ma pensando di fare il meglio per me. Era convinta che un giorno avrei avuto dei figli e ancora adesso non si dà pace.

Oggi mi occupo di lei e continuo a lavorare su me stessa. Ovviamente, la mia situazione personale non è accomunabile a quella di tutte le donne. Io soffrivo di una depressione latente e certamente non tutte le donne che abortiscono si ritrovano poi a dover assumere psicofarmaci e ad affrontare percorsi drammatici come il mio. Però, proprio alla mia condizione emotiva devo la sensibilità che ha permesso alla mia coscienza di svegliarsi. E oggi spero che la mia testimonianza possa essere di aiuto ad altre”.

Fonte: https://luce.lanazione.it/attualita/aborto-oltre-la-questione-di-diritto-la-decisione-intima-che-coinvolge-corpo-mente-e-cuore-fm62dxl9

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